Cara Repubblica,
con la comparsa del Covid-19, che non guarda in faccia nessuno, stiamo attraversando un periodo molto complesso: paura di contrarlo e di trasmetterlo ad altri, disagio per la perdita di libertà con limitazione delle nostre abitudini personali e dei nostri spostamenti. Se per molti il “restare a casa” potrebbe essere il male minore, per altri può rappresentare un periodo di forte stress e disagio psicologico, emotivo, fisico ed anche spirituale. Pensiamo ai familiari caregivers che condividono spazi ed emozioni con i nostri pazienti. Pazienti che possono manifestare contemporaneamente segni e sintomi di tre condizioni patologiche: intossicazione da alcol e sostanze, encefalopatia da cirrosi epatica e talvolta anche comorbilità psichiatrica. Chi è il “caregiver”? Caregiver significa prestatore di cura, una persona che si prende cura di un’altra, e per cura intendiamo quel sostegno a carattere relazionale, emotivo, fisico e d’aiuto rivolto a persone fragili e non autosufficienti, persone che hanno perso la propria autonomia. Spesso il legame del caregiver con il destinatario d’aiuto, è un legame di parentela, un legame iniziato prima del prendersi cura, basato su un rapporto personale e non su un ruolo professionale. Sappiamo che la famiglia è sempre stata l’unità primaria della gestione dei bisogni dell’individuo e pur tra mille difficoltà si è da sempre occupata dei bisogni dei propri componenti più deboli.
In epoca Covid-19, per questi familiari il “restare a casa” in compagnia dei loro assistiti comporta un’ attività molto complicata per diversi motivi: sentono la mancanza di un supporto da parte degli altri membri della famiglia, anch’essi isolati a casa; devono contenere il conflitto tra le esigenze della famiglia e quelle del malato che, come già detto, spesso presenta molteplici variazioni comportamentali.
Talvolta devono occuparsi della gestione del contenimento delle crisi di astinenza (aderenza terapeutica, supporto psicologico) dove i caregivers si ritrovano a sperimentare il carving del loro caro e si trovano in balia di tutte le loro alterazioni comportamentali ossessivo-compulsive. Se in altri momenti si chiamava il 112/118 o ci si recava direttamente ai servizi, oggi per i familiari è meglio non farlo per il timore coronavirus. Il “caregiving” è un’attività difficile e destabilizzante. Il caregiver vive in uno stato di vigilanza permanente e di responsabilità continua e totalizzante perchè sa, che la situazione che si è venuta a creare non è temporanea in quanto gli eventi e le alterazioni comportamentali si ripetono e si ripropongono. Quando si ripropongono, però, in un periodo come questo la convivenza può diventare estenuante. Molte le telefonate dei familiari ricevute e molte le telefonate che a cadenza regolare facciamo ai caregivers. Ascoltiamo manifestazioni di disagio, rabbia, stanchezza, senso di colpa per non essere adeguati alla situazione con conseguente stato ansioso-depressivo. Tuttavia la partecipazione dei familiari ai gruppi di auto mutuo aiuto per caregiver istituiti dal nostro Centro nei mesi precedenti ha avuto la sua rilevanza. Tali gruppi, moderati da un’operatrice socio sanitaria e da un medico, sono spazi riservati ai familiari con l’obiettivo di avviare un processo di ricostruzione della propria vita, sentirsi capiti da altri familiari che vivono la stessa esperienza ma soprattutto” non sentirsi soli” nell’affrontare il percorso difficile e destabilizzante del “prendersi cura”. All’interno dei gruppi, i familiari condividono fatti, vissuti, emozioni del medesimo problema; ognuno si riconosce nella storia dell’altro ed emergono punti di forza e risorse che portano a piccoli cambiamenti che migliorano la qualità della vita del familiare e del malato stesso. La costituzione in epoca pre-Covid-19 di tali gruppi è stata per noi e le famiglie di grande aiuto. Il fatto di conoscerci ci ha consentito di affrontare meglio, anche se telefonicamente, le richieste d’aiuto. D’altra parte la preparazione che i familiari hanno avuto precedentemente ai gruppi consente loro di gestire al meglio l’aderenza terapeutica con minori ricadute in un periodo dove è bene non accedere ai servizi sanitari per ovvi motivi.
Inoltre, abbiamo risolto insieme alcune problematiche sia giudiziarie che lavorative.
Insomma, il segnale di aiuto del familiare caregiver ”siamo in mare aperto in tempesta e non possiamo nuotare…. ci sentiamo soli…” trova un salvagente che non solo sostiene, ma aiuta a mantenere il sapore della vita, certamente difficile, ma come si dice in epoca Covid “andrà tutto bene”!
Fonte: La Repubblica 14 aprile 2020
L'INTERVENTO di PATRIZIA BALBINOT e GIANNI TESTINO*
*Operatrice Socio-Sanitaria e Primario
SC Dipendenze ed Epatologia, Centro Alcologico ASL3